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martedì, novembre 29, 2005

I PIRATI DI SILICON VALLEY 2

Nel film, all'inizio, viene rappresentato il set della pubblicità della Apple. Questa pubblicità mi ha veramente colpito e del resto come non poteva se l'autore è Ridley Scott. Ho trovato su emule Spot Apple 1984.mov. :-) Mi chiedevo ma c'è copyright anche sulla pubblicità o questo file posso inserirlo in HK?

domenica, novembre 27, 2005

I PIRATI DI SILICON VALLEY

Lo so...ok...ma è solo oggi, o meglio stasera, che ho avuto modo e tempo di vedermi il film dedicato alla Microsoft e alla Apple. Mi sono scompisciata dalle risate... Bill sembra un deficiente, ha gli occhi da pesce lesso e sembra persino un pò gobbo. Ha l'aria da secchione, però non sa niente, non lo si vede mai far qualcosa, nemmeno un calcolo! :-) Un'addizione, una sottrazione! :-) Il leader di Apple è un artista pazzo, uno da trip, un pò hippy ma che schiavizza i suoi dipendenti...cose da matti! :-) Tutti copiano da tutti, il mouse non è di Apple, il dos non è di Microsoft Un gran ridere! :-))))))) L'inizio del film prometteva bene, ma verso la fine...:-) Comunque lo consiglio! :-)))) Da vedere con un pò di vinozzo o una paglia! :-)

I COMPUTER SOTTO LA LENTE DI DARWIN

Ho trovato questo articolo così per caso...
Lo posto qui...
Da Clarence

• Mercoledì 17 Dicembre 2003 I computer sotto la lente di Darwin di Tommaso Pincio. Un simbolo della nostra epoca Le tappe fondamentali dell'evoluzione naturale applicata all'intelligenza artificiale: la costante è una sola, lo scetticismo. Un sentiero di lettura tra crisi d'identità, paure, caccia al senso Macchine del potere Diffidiamo dell'intelligenza artificiale perché manca di «umanità», ma non le concediamo la cosa più umana di tutte, sbagliare. Nonostante i suoi errori siano meno letali di quelli di chi ci governa. Nessuno ha mai messo in dubbio che a Ok computer spetterà un posto di assoluto riguardo nella storia del rock. Fin dalla sua uscita nel 1997 è stata chiara una cosa: i Radiohead - questi cinque ragazzi di Oxford, colti, intelligenti, sofisticati, dimessi, viziati e piagnucolosi come nessun altra band ha mai osato essere prima di loro - hanno creato qualcosa che solo accidentalmente può definirsi musica pop. La loro è una rappresentazione tragica, complessa, asfissiante e purtroppo affatto credibile degli stati di alienazione e del disagio nella civiltà del capitalismo avanzato, al volgere del nuovo millennio. La questione è semmai un'altra, ovvero un interrogativo che continua a riaffiorare con l'inevitabilità di un ritornello ogni qualvolta si torna a parlare dell'album: perché proprio quel titolo? Cosa ci vogliono dire i Radiohead con Ok Computer? Che il computer è ok, un fatto positivo? Oppure che a un'umanità ormai consapevole di dover capitolare allo strapotere informatico non resta che alzare le mani e pronunciare la sua dichiarazione di resa: «Ok, computer. Che sia come vuoi tu»? A molti non sarà parso privo di significato che proprio nel 1997 Deep Blue, il supercomputer della Ibm, abbia sconfitto a scacchi il campione del mondo Garry Kasparov. Interpellare gli interessati ovviamente è servito a poco. Tra le tante delucidazioni elusive fornite nel tempo dai componenti della band ce n'è una di Thom Yorke che farebbe perdere la pazienza a un maestro zen: «Ok Computer non tratta davvero di computer». Ma è la verità.I temi realmente affrontati nelle canzoni sono altri e riguardano la crisi d'identità, la paura, la politica, la mancanza di senso che subentra quando l'informazione diventa un valore assoluto, la difficoltà di esistere in qualità di individuo in una società dove tutto è convertito in enormi ammassi di numeri e convogliato in un sistema per la gestione dei dati. Certo, soprattutto per quanto concerne l'ultimo punto, il computer è una immagine più che appropriata, il simbolo per antonomasia della nostra epoca; un simbolo quasi triviale, per quanto è scontato. Ma ciò non sembra essere una risposta sufficiente né tantomeno soddisfacente. Il quesito resta: perché Ok computer?Non meraviglierà nessuno che Pablo Picasso non condividesse il diffuso entusiasmo per l'avvento dell'era informatica. Per lui i computer erano oggetti inutili in quanto danno soltanto risposte. Avesse avuto la possibilità di dialogare con l'interfaccia di un qualunque Pc di oggi, avrebbe scoperto che si sbagliava. Seppure a modo loro, i computer fanno domande; ci chiedono, per esempio, se devono salvare un file o se siamo sicuri di volere interrompere una sessione di lavoro. Forse, la loro intelligenza artificiale non consentirà mai di formulare domande che non siano servili e preconfezionate, forse non saranno mai capaci di dubitare realmente, ma di fatto i computer domandano. Solo un tipo di quesito è loro precluso, al momento: il perché delle cose. E non è detto che sia uno svantaggio.Per certi aspetti, la richiesta di un perché è quasi sempre una domanda mal posta. Il perché corrisponde al bisogno tipicamente umano di trovare sensi e ragioni. Non di rado, però, l'esistenza di un senso è soltanto una pia illusione. Spesso i perché o non esistono o vanno al di là della nostra comprensione o, e questo è il caso più frequente, sono talmente numerosi, vaghi e ingarbugliati da rendere incompleta qualsiasi risposta. Reclamare il perché di un titolo come Ok computer è anch'esso una domanda mal posta. Non è affatto improbabile che i Radiohead non intendessero essere tanto ambiziosi o radicali da dimostrare che le cause del contemporaneo male di vivere debbano essere ricondotte al potere assunto dalle intelligenze di tipo artificiale. Forse non ci sono altre ragioni per quel titolo, se non quella che suona bene. Perché suona bene davvero. Suona così bene che ancora oggi critici, intervistatori e semplici appassionati sono impegnati nella ricerca del suo senso riposto. Non sarebbe allora più proficuo cercare di capire cosa conferisce a due parole di uso tanto comune il fascino ipnotico di un mantra custode di segreti non meglio pronunciabili? Una possibile risposta è che l'accostamento dei due termini, pur suonando bene, abbia un che di stridente. Pur mettendo da parte le cacce alle streghe in versione elettronica e i fantasmi di una realtà fatta ostaggio delle macchine sul modello di Matrix, è innegabile che la parola computer evochi alle nostre orecchie paure e apprensioni di vario genere. Li usiamo tutti i giorni, permettiamo che organizzino la nostra vita, eppure la sensazione abbastanza diffusa è che ci fidiamo dei computer malgrado noi, quasi non avessimo alternativa, quasi potessero tradirci da un momento all'altro. Molti di questi timori sono infondati, altri derivano dal fatto che i computer possono diventare uno strumento di micidiale e incontrollabile efficacia se posti nelle mani di coloro che vogliono derubare, truffare e spiare il prossimo. Per parte loro, i computer non si sono ancora organizzati in un impero del male, eppure saremmo ipocriti qualora ci dichiarassimo del tutto tranquilli, se non ammettessimo di essere sfiorati dal dubbio, anche solo di sfuggita, ogni qualvolta seminiamo in Internet il nostro numero di carta di credito. Di fatto ci fidiamo dei computer come di una puttana che dice di farlo per amore. Ma non è soltanto questo. Sotto sotto, oltre a non fidarci, li disprezziamo, gli rinfacciamo di non avere la nostra fantasia, di non provare sentimenti, di essere quello che sono: macchine. Ciò che ci spinge a chiedere spiegazioni in merito al titolo di quell'album dei Radiohead è che Ok computer sembra una contraddizione in termini. Suona bene proprio perché è una perfetta dissonanza, perché ci piace coccolarci con l'idea che non possa esserci niente di davvero ok in un computer. E sarebbe sbagliato ritenere che simili biechi atteggiamenti prosperino solo nell'ignoranza, nelle menti di chi sa poco o nulla dei flussi di bit che si agitano dietro un'interfaccia. È piuttosto vero il contrario: non di rado sono proprio i costruttori di queste duttili macchine a sollevare dubbi, a perdersi in ragionamenti che poco sanno di scienza, a usare lo stesso linguaggio fumoso e sibillino dell'oracolo di Matrix, a esprimersi per paradossi, veri e propri haiku della logica come questo composto da un ingegnere informatico: «Vent'anni fa ebbi modo di profetizzare che entro due decenni l'uso di un computer sarebbe stato assimilabile a quello di un normale telefono. Non mi sbagliavo. Due decenni sono passati e infatti non ho la minima idea su come far funzionare il mio cellulare». L'apprensione al momento più comune è che i computer non sappiano custodire i segreti che gli affidiamo, per non parlare dei soldi. Apprensione più che giustificata: un'analisi effettuata nel 2001 dal Computer Security Service negli Stati Uniti rivela che l'85% delle aziende interpellate ammette di aver riscontrato falle nei sistemi di sicurezza e il 64% ha segnalato perdite economiche dovute a intrusioni informatiche. Tutto ciò nell'arco di un solo anno. Una percentuale altissima, che sembrerebbe dare ragione al vecchio detto per cui il solo computer sicuro è quello spento. Kevin D. Mitnick, hacker di fama mondiale, dimostra in modo purtroppo inconfutabile che certi problemi riguardano poco l'efficacia di firewall e password (L'arte dell'inganno, Feltrinelli, Euro 15): «la sicurezza informatica sarà sempre una chimera finché esisterà il fattore umano». Un esempio su tutti. Nell'ormai lontano 1978, Stanley Mark Rifkin riuscì a farsi trasferire su un conto svizzero appositamente aperto la ragguardevole somma di otto milioni di dollari. L'impresa gli valse un posto di rilievo nel guinness dei primati sotto la voce «le più grandi truffe informatiche». Il problema è che Rifkin fece tutto senza sfiorare una sola tastiera. Telefonò sotto falso nome a un paio di impiegati, con un po' di parlantina ottenne le informazioni necessarie e poi si limitò a chiedere, sempre per telefono, il trasferimento del denaro. Niente di più. Un'arte del raggiro pomposamente denominata «ingegneria sociale»; questa tecnica, benché vecchia come il mondo, è il grimaldello molto efficace e poco dispendioso che apre agli hacker le porte di quei sistemi che aziende e uffici governativi spacciano per inviolabili. Altra questione è l'affidabilità dei programmi. Nel suo Computer a responsabilità limitata (Einaudi, Euro 13) David Harel, uno dei maggiori esperti di informatica, ricorda la storia del razzo francese Ariane 5, esploso nel 1996 pochi secondi dopo il lancio provocando perdite commerciali stimate nell'ordine di molti miliardi di dollari. L'immancabile commissione d'inchiesta riuscì a stabilire che tutto era dovuto a «errori di specifica nel software gestore del sistema di riferimento inerziale». Tradotto in termini più accessibili, il programma incriminato immagazzinava un numero di 64 bit in un registro lungo soltanto 16 bit, causando quello che in termini tecnici si chiama overflow ovvero uno «straripamento». Una svista imperdonabile. Stiamo però parlando di un errore di una sola riga all'interno di un programma di enormi dimensioni; un po' come scrivere la parola «gatto» con tre T in un romanzo di centinaia di pagine. Qualcosa di fisiologico. Oltre ai piccoli refusi, capaci comunque di portare al collasso un intero sistema, esistono poi i cosiddetti errori di logica. In questi casi il programma non contiene sbagli evidenti, bensì falle nella definizione di determinati problemi, per cui il computer è costretto a interpretare le nostre richieste a modo suo dando luogo a effetti indesiderati. Individuare simili problemi è molto difficile e spesso non c'è altro modo per verificare la bontà di un programma se non quello di farlo girare più volte finché non si presenti qualche inconveniente. Ma il vero problema non è l'affidabilità dei computer, qualunque ne sia la causa, bensì il nostro atteggiamento a dir poco contraddittorio: diffidiamo dell'intelligenza artificiale per la sua mancanza di umanità, ma non siamo disposti a tollerare che faccia la cosa più umana di tutte, sbagliare. Proseguendo su questa linea: come dovremmo intendere l'affermazione di Alan Turing per cui una macchina può essere considerata davvero intelligente se può far credere a un essere umano di comunicare con un altro umano? Non è perlomeno curioso che non si sia pensato a qualcosa di più edificante dell'inganno quale prova di intelligenza per una macchina? Sempre stando alle parole di Turing, un computer è una macchina «capace di simulare qualunque altra macchina». Una specie di Zelig artificiale, insomma. E anche questo dovrebbe indurci a riflettere. Se poi consideriamo che un computer è, per estensione, una macchina «capace di fare qualunque cosa possa essere descritta in termini matematici», non dovremmo più meravigliarci se il dibattito in materia è spesso sprofondato in un terreno melmoso dove tutto equivale a niente e viceversa. Ancora oggi esperti e enfant terrible della scena high-tech quali Jason Lanier liquidano fiumane di calcoli, parole e teorie con affermazioni del tipo «l'intelligenza artificiale è più un sistema di credenze che una tecnologia», e chiunque voglia muovere i primi passi in questa nuova forma di teologia che, come ogni buona scienza del divino, tutto contempla fuorché il senso del ridicolo, può dare un'occhiata all'agile Storia dell'intelligenza artificiale di Sam Williams (Garzanti, Euro 13,50). Negli ultimi due secoli solo la teoria sull'origine della specie è stata altrettanto controversa ed era perciò inevitabile che qualcuno individuasse nel progresso informatico svolte di natura darwiniana. Scrive Ray Kurzweil nel suo celebre articolo The Age of Spiritual Machine (1999): «La più grande creazione dell'evoluzione, l'intelligenza umana, sta fornendo i mezzi - la tecnologia - per il prossimo stadio evolutivo... un ulteriore esempio di come l'evoluzione faccia uso delle proprie innovazioni di un periodo (gli esseri umani) per creare le successive (le macchine intelligenti)». A molti apparirà sconcertante che importanti studiosi si esprimano come lo scienziato pazzoide del più prevedibile film di fantascienza, dipingendo scenari in cui le macchine si liberano di chi le ha create per diventare padrone del proprio destino. L'astrusità di molte riflessioni trova però una sua precisa ragione di essere nell'enorme sproporzione tra l'ipotesi di una macchina intelligente e la sua effettiva realizzazione. Questa sproporzione è stata non solo la premessa ma anche ciò che ha condizionato fino a oggi il destino del computer. Tra l'ingegnosa calcolatrice che Leibniz presentò alla Royal Society nel 1673 e l'ormai storico saggio del 1936 On Computable Numbers con cui Alan Turing pose definitivamente le basi per la costruzione di una macchina universale, corrono i tre secoli che Martin Davis racconta nel Calcolatore universale (Adelphi, Euro 24). Trecento anni fatti di tanti «sogni» e speculazioni fondamentali, ma anche di scarsi risultati concreti; basti pensare che ancora in pieno `900 la «ruota di Leibniz» era spesso presente nei calcolatori. La data di nascita del primo computer vero e proprio è il 12 maggio 1942. Si chiamava Z3 e venne assemblato da Konrad Zuse, un ingegnere berlinese, usando ripetitori telefonici per immagazzinare i dati e pellicole di vecchi film perforate come programmi; particolare, quest'ultimo, di innegabile fascino. Da lì in avanti il destino della macchina universale ha corso a una velocità impressionante, ma ciò che più sorprende è la sfiducia che ha accompagnato senza posa il progresso tecnologico. Poche invenzioni, infatti, sono state circondate da una diffidenza tanto pronunciata e così in contraddizione con le premesse teoriche. Nel 1943 un dirigente della Ibm azzardò una previsione: «Credo che sul mercato dell'intero pianeta ci sia spazio per cinque computer al massimo». Trent'anni dopo, nel 1977, la si pensava ancora così: «Non c'è nessuna ragione per cui una persona dovrebbe volere un computer in casa»; lungimirante considerazione attribuita a Kenneth Olsen della Digital Equipment Corporation. È sufficiente sfogliare le pagine di Computers. An Illustrated History di Christian Wurster (Taschen, Euro 24,99) per farsi una ragione del fatto che il nostro pessimismo è spesso immotivato. Eppure quando si è celebrato il compleanno di Hal, il computer cattivo di 2001 Odissea nello Spazio, gli esperti di Silicon Valley sono accorsi in massa. Abbiamo informatizzato gli aspetti più disparati della nostra vita, non sappiamo immaginare il nostro futuro senza queste macchine, ma non possiamo fare a meno di guardarle come potenziali minacce. Finché si tratta di disquisire sulla possibilità che un computer possa essere ok tutto va bene. Il dubbio che sorge spontaneo, come si dice, è un altro: perché lo stesso scetticismo non viene applicato dagli artefici di belle pensate quali la sperequazione economica o le guerre umanitarie? Non è affatto escluso che, semmai conquisteranno il potere, la macchine possano dimostrarsi più umane di chi ci governa oggi. Anche se, bisogna riconoscerlo, non sarebbe poi così difficile.
www.ilmanifesto.it

martedì, novembre 22, 2005

FOTOCOPIE E CONTROMARCHE

18-11-2005
Saranno applicate delle contromarche
Nuovo accordo sulle fotocopie
La SIAE, l’AIE (Associazione Italiana Editori), le Associazioni degli scrittori (SNS, il Sindacato Nazionale Scrittori, SLSI, il Sindacato Libero Scrittori Italiani, UIL-UNSA, l’Unione Nazionale Scrittori e Artisti) hanno firmato un nuovo accordo con le Associazioni di categoria CNA, Confartigianato, CASARTIGIANI, C.L.A.A.I. e LEGACOOP, per i diritti d’autore sulle fotocopie di opere protette. Secondo il testo del nuovo accordo che non prevede alcun aumento delle royalty per diritto d’autore, le copisterie e gli altri esercizi in cui vengono effettuate fotocopie dovranno applicare sulle pagine riprodotte delle “contromarche” di vario taglio e colore prima di consegnarle ai clienti per non incorrere nelle sanzioni previste dalla legge. Il compenso spettante agli autori delle opere fotocopiate sarà corrisposto in base alle risultanze dell’acquisto delle “contromarche”. Il colore e taglio dipenderanno dal numero delle copie richieste e legittimate, cioè in regola con la normativa sul diritto d’autore. L’attuale normativa nazionale (Legge 248/2000) consente la fotocopia di opere protette per uso personale (motivi di studio, lettura, consultazione) e nel limite massimo del 15% di ciascun libro. Resta comunque vietata ogni utilizzazione a fine di lucro, che possa pregiudicare i diritti di utilizzazione economica spettanti all’autore. Come accade sia pure con diverse modalità in tutta Europa, anche la legge italiana ha stabilito, da tempo, che sia dovuto un compenso per le opere che vengono fotocopiate nei centri di riproduzione allo scopo di conciliare due diverse esigenze: quella degli autori ed editori di ottenere la giusta remunerazione per la loro attività creativa e quella dei lettori di disporre di copie per uso personale, per ragioni di studio o di lavoro. La negoziazione degli accordi e la riscossione dei compensi sono state affidate dalla legge alla SIAE, che ha anche poteri di vigilanza sui centri di riproduzione, per prevenire ed accertare le violazioni della legge. Secondo l’Ufficio Studi dell’AIE nel 2004 il fenomeno delle fotocopie abusive, in crescita rispetto all’anno precedente ha sottratto ad autori ed editori e al settore della distribuzione non meno di 340 milioni di euro. La raccolta di diritti sulle fotocopie legali ha prodotto soltanto 3,4 milioni di euro rispetto agli 89 milioni del Regno Unito, i 51 milioni della Germania i 26 della Spagna e i 23 della Francia.
Tratto da Siae.it
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17.11.2005
Fotocopie, arrivano le "contromarche" Siae
di red.
Fotocopie, arrivano le "contromarche" Siaedi red. Arriva una “contromarca” per le fotocopie per tutelare i diritti d’autore. Si tratta di un accordo tra la SIAE, l'Aie (Associazione Italiana Editori), l'Associazione degli Scrittori, e altri sindacati nazionali degli scrittori. Così le copisterie e ogni altro esercizio, dove si effettuano fotocopie, applicheranno una “contromarca” sulle pagine riprodotte, come prova dell’avvenuto pagamento dei diritti d’autore. Sono previste sanzioni, invece, per chi sarà trovato con delle fotocopie senza “contomarca”. La nuova intesa sarà valida da gennaio e durerà due anno.
Per la Siae si tratta di «conciliare due diverse esigenze: quella degli autori ed editori di ottenere la giusta remunerazione per la loro attività creativa e quella dei lettori di disporre di copie per uso personale, per ragioni o di studio o di lavoro”. Secondo l’Ufficio Studi dell’Aie, infatti, nel 2004 il fenomeno delle fotocopie abusive ha sottratto ad autori ed editori non meno di 340 milioni di euro.
Tuttavia ogni volta che si parla di proprietà intellettuale, diritti di autori ed editori sembra che il terzo escluso sia sempre il lettore. Chi visita, infatti, con più frequenza le fotocopisterie? Perché? Per rispondere alle domande, basta guardare i quartieri delle città, dove sono situate le fotocopisterie: le università sono al primo posto. Le fotocopie sono un surrogato del libro, ogni qual volta il testo da comprare ha un costo troppo alto. Gli studenti universitari, che devono comprare molti testi per ogni esame, ricorrono sempre più spesso alle copisterie. In un momento in cui l'istruzione costa sempre più, ecco un altro balzello a carico degli studenti.
Tratto da L'Unità Online

lunedì, novembre 21, 2005

PC A 100 DOLLARI PER I PAESI DEL TERZO MONDO

Elvex, in uno dei suoi ultimi commenti, mi ha chiesto se avevo sentito parlare di PC a 100 dollari per i paesi del terzo mondo. Sì. Ne ho sentito parlare. Credo addirittura di aver letto qualcosa a riguardo, ma senza molta attenzione. Certe notizie mi lasciano, da un pò di tempo, sempre molto indifferente, soprattutto quando coinvolgono più che i paesi del terzo mondo, affermatissime aziende. Questo non vuol dire che non nutro la speranza che qualcosa possa cambiare sul serio, ma sono cauta e sempre critica. Grazie ad Elvex, però, ho deciso di approfondire meglio...
Qui di seguito alcuni link per chi la notizia non l'avesse ancora letta:

*Corriere della sera - Scienza e tecnologia > qui

*Punto-Informatico > qui

*L'Espresso > qui

Cito inoltre Dotcoma *:o) :
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18.11.05
100 dollari
Se 100 dollari per un portatile sembrano pochi, Thomas mi segnala che in Tanzania 1 euro è quella moneta il cui valore unitario equivale alla fatica di un bambino africano di 5 anni che trasporta 810 kg di mattoni percorrendo complessivamente 90 km, di cui 45 con 9 kg sulla testa.Per guadagnarsi un laptop da 100 dollari, un bambino deve quindi trasportare 8 tonnellate di mattoni per 900 km… Mi chiedo: e dove lo trova poi il tempo per studiare e usare il portatile?
Pare che anche la Cina, l’Egitto e il SudAfrica abbiano manifestato grande interesse per il laptop presentato da Negroponte. Molto bene. Per i Paesi più poveri come la Tanzania, però, devono essere i Paesi ricchi a fare qualcosa. Cosa aspetta Prodi a promettere di aiutarli acquistando al doppio o al triplo del prezzo 1 milione di portatili per i bambini italiani delle scuole elementari?
Leggi anche: Bangkok Post - Folha Online - Wired
Massimo Moruzzi, 10:42 trackback [1]

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IL SILENZIO PUO' ESSERE ASSORDANTE

Stanca di procedere in piena solitudine nell'approfondimento di certe tematiche, la raccolta di documentazione relativa alla cultura hacker, chiedo disperatamente aiuto e partecipazione...Se proprio non hai tempo, andrà bene anche un "toc toc ci sono anche io", "vai forte Marì, non ti arrendere" e "farò di tutto per esserci". :-) Il silenzio può essere assordante e l'eco continuato dei propri pensieri, opinioni, progetti, estremamente noiso. Mi sono quindi munita di tutti gli strumenti necessari per farmi stordire dalla vostra voce virtuale.
Dite la vostra, urlate pure se vi va...ma fatevi sentire...Dove?
Qui sul blog ma non solo. Nei prossimi giorni vi dirò di più!

venerdì, novembre 18, 2005

DIGIMAG VERSIONE INGLESE

Dall'inizio del 2005 scrivo per Digimag, un magazine elettronico con pubblicazione mensile sui temi della cultura elettronica e delle arti digitali. Lo scopo di questo e-mag è di informare e approfondire tutte le tematiche relative al mondo della cultura, delle arti e delle tecnologie elettroniche, mettendo in evidenza le differenti realtà esistenti e le sinergie che tra esse si creano. Gli argomenti trattati: Net Art, Hack Art, Software Art, Video Art, Elettronica, Audio Video, Performing Art, Intelligenza Artificiale, Interaction Design, Tech Media.
Da oggi esiste anche una versione inglese. A questo indirizzo, http://www.digicult.it/digimag_eng/index.html, troverete tutti gli articoli tradotti. Quello su copyzero che ho scritto questo mese in hackart (una sezione di digimag che si occupa di hacking, hacktivismo e hacker art), e che domenica scorsa ho anche postato qui sul blog, potete leggervelo in inglese a questo indirizzo:
http://www.digicult.it/digimag_eng/articoli/hackart_mariamolinari.htm.

domenica, novembre 13, 2005

COPYZERO: ALL RIGHTS DIGITALIZED


Il Movimento Costozero è un'associazione senza fini di lucro che si batte per la gratuità del diritto alla comunicazione, considerata fonte di reale sviluppo. Sostiene l'informazione gratuita e l'accesso gratuito ai mezzi di informazione, la diffusione dell'open content e l'adozione del software libero nella pubblica amministrazione, nelle aziende, nelle associazioni, nelle scuole, nelle università e nella ricerca scientifica. Tra i vari progetti concreti e servizi promossi e offerti dal movimento - un elenco è nella sezione Proposte e Servizi del sito www.costozero.org -, vi è Copyzero, un modo per tutelare il diritto d'autore (copyright) e soprattutto il permesso d'autore (copyleft) a costo zero.
Il diritto d'autore (in Italia regolamentato dalla legge 22 aprile 1941, n. 633) comprende i diritti morali, cioè il diritto alla paternità e all'integrità dell'opera e il diritto al suo ritiro dal commercio, e i diritti patrimoniali, come il diritto allo sfruttamento economico dell'opera, il diritto di pubblicarla, riprodurla, distribuirla, modificarla. I diritti morali sono inalienabili, imprescrittibili e irrinunciabili, restano cioè sempre dell'autore, quelli patrimoniali possono essere anche ceduti, ad esempio a una casa editrice, in cambio di denaro. Molti, purtroppo, pensano, erroneamente, che tali diritti siano riconosciuti a un autore solo se è iscritto o se ha depositato la propria opera alla Siae, alla società italiana degli autori ed editori. Il diritto d'autore, invece, è automaticamente applicato all'opera all'atto della sua creazione senza che sia necessario eseguire alcuna formalità amministrativa, iscriversi a nessuna associazione, o ricorrere a nessun tipo di registrazione.
Chiarito questo, è ovvio che l'autore debba fornire, se vuole tutelarsi a tutti gli effetti, una prova legale della paternità dell'opera e della sua esistenza ad una data certa, specie in caso di contesa giuridica. Alcuni si rivolgono alla Siae anche per questo motivo, ma in molti casi potrebbero farne a meno. La Siae si occupa per lo più della protezione e dell'esercizio dei diritti d'autore, cioè della concessione di licenze e autorizzazioni per lo sfruttamento economico delle opere, dell'incasso dei proventi e della loro ripartizione. “ Se sei nel mercato – ci spiega Nicola A. Grossi, Presidente di Movimento Costozero - la Siae ti può servire (è una sorta di partner commerciale), se non ci sei, non è necessaria. Il fatto è che la stragrande maggioranza degli autori non è nel mercato e, in buona parte, si rivolge alla Siae. Un non iscritto alla Siae, che deposita in Siae, non vuole (e non può) ricevere compensi tramite Siae, intende solo tutelare i suoi diritti”.
Tali diritti però possono essere protetti con strumenti tecnologici e giuridici alternativi, altrettanto efficaci e meno onerosi (un elenco completo è qui). Tra questi c'è appunto Copyzero, la tutela del diritto d'autore tramite apposizione di firma digitale e marca temporale.
La firma digitale, per chi non ne fosse al corrente, è l'equivalente elettronico di una tradizionale firma su carta. Ha lo stesso valore legale.* L'unica differenza è che è sempre associata a un documento informatico, al quale attribuisce informazioni che ne attestano con certezza l'integrità (cioè che il documento non è stato manomesso), l'autenticità (l'identità di chi la firma) e la non ripudiabilità (l'autore non può più disconoscere il documento firmato). La marca temporale, invece, fornisce la prova che un determinato documento esisteva già al momento della marcatura e prima di una certa data. Nella marca sono indicati data e ora, nome dell'emittente della marca e impronta del documento marcato (ossia una sequenza di numeri di lunghezza fissa che identificano univocamente il file). “Da un punto di vista tecnologico – ci spiega Grossi - la marca temporale richiede risorse tecniche maggiori. Non è un caso che apporre la marca ha un costo (0,36 euro), mentre apporre la firma no”.
Il procedimento da seguire è semplice. L'autore converte la propria opera in formato digitale, vi inserisce i dati di copyright e l'eventuale licenza ed infine la firma e la marca utilizzando una smart card, il relativo lettore e uno specifico software (in genere multi-piattaforma). Se il lettore è reperibile ovunque, in qualsiasi punto vendita abilitato, la smart card può essere ritirata presso l'Ente Certificatore, così denominato perché rilascia un “certificato digitale di sottoscrizione” nel quale è specificata l'identità del titolare della smart card, la chiave pubblica che gli è stata attribuita, il periodo di validità del certificato e i propri dati, cioè dell'Ente che ha certificato. Così facendo il titolare entra a far parte di un elenco pubblico di certificati e chiunque voglia verificare la validità del suo certificato può farlo consultando questo elenco online o richiedendo informazioni direttamente all'Ente. InfoCamere, la Società Consortile di Informatica delle Camere di Commercio Italiane, è uno dei primi e più efficiente.
La firma tutela tutti i diritti, patrimoniali e morali, ed è anche conveniente dal punto di vista economico. Tutelare i propri diritti tramite Siae, infatti, costa, per ogni singolo deposito da parte di un non iscritto alla Siae, 110 euro, da corrispondere ogni 5 anni per il rinnovo. Comprare una smart card e un lettore costa molto meno, al massimo 50 euro ed è un prezzo che si paga una sola volta e per sempre (negli anni è anche destinato a calare). Per chi non volesse o non potesse comprare neanche la smart card e il lettore, c'è sempre Copyzero On-line un servizio gratuito ma riservato ai sostenitori, ossia a chi ha donato anche un solo euro all'associazione.
Il procedimento da seguire per Copyzero Online è ancora più rapido. L'opera, convertita in formato digitale, viene compressa in un archivio protetto con password (la dimensione del file non deve essere superiore ai 20 mega) e inviata direttamente a copyzero.org, insieme ad un modulo opportunamente compilato e un documento di identificazione. Nel caso in cui si tratti di un software, il file archivio dovrà contenere i sorgenti. Una volta che copyzero.org l'ha marcata temporalmente (nel caso di Copyzero Online la marca è ciò che conta veramente), l'autore potrà scaricarla dalla rete. Sempre in rete è possibile esaminare e verificare la validità dei file ottenuti (quelli firmati e marcati hanno rispettivamente estensione .p7m e .m7m), che non sarebbero altrimenti leggibili se non dotandosi dell'apposito software (www.card.infocamere.it/servizi/vericert.htm).
Copyzero favorisce soprattutto, ma non esclusivamente, il copyleft, l'open content e chi non è iscritto alla Siae (e dunque non percepisce eventuali compensi). “Ciò non significa – sottolinea Grossi - che il diritto a compenso sparisce se non ci si rivolge alla Siae. E' sempre possibile mettere in vendita le proprie opere su Internet. Inoltre, se non si tratta di un'attività professionale, ma di una vendita occasionale, e se non si è iscritti alla Siae, è possibile vendere le proprie opere senza la necessità di aprire partita iva e senza la necessità di richiedere la licenza multimediale Siae”. “Il software proprietario – ci spiega ancora - è "autotutelato" (il sorgente è invisibile e dunque non è possibile “appropriarsene” facilmente). Il software libero, invece, è per sua natura più esposto a indebite utilizzazioni del codice. Nell'open content il lavoro, spesso, è collettivo e progressivo: è opportuno tutelarlo “giorno per giorno” (questo ovviamente vale anche per il software libero)”. Copyzero non solo fortifica il copyleft contribuendo significativamente alla sua rispettabilità in tutti quei rari casi in cui versi in condizione di debolezza, ma risulta particolarmente utile anche in caso di work in progress o di opere che si sviluppano collettivamente, in quanto dà la possibilità ad ogni nuovo autore di aggiungere la propria firma a quella degli autori che l'hanno preceduto e di apporre una marca temporale nuova ad ogni nuova versione dell'opera.
Alla domanda “Copyzero può essere definita una valida alternativa alla Siae?”, Grossi risponde: “Sì, per chi non ha interesse a percepire compensi attraverso Siae. La firma digitale qualificata è uno strumento molto potente soprattutto in paesi come l'Italia. Oggi, con la firma digitale qualificata si stipulano contratti (le stesse licenze open content sono contratti, le cui clausole vessatorie necessitano della sottoscrizione: altrimenti dette clausole, come, ad esempio, la clausola di limitazione di responsabilità, sono nulle e possono comportare la nullità dell'intera licenza), domani si firmeranno petizioni on-line (una bella prospettiva di democrazia partecipativa)... molti usi, molte opportunità di progresso. Certo, sono in pochi a conoscere e a sapere usare la firma digitale qualificata. Se Copyzero è poco noto è anche perché le potenzialità della firma digitale sono poco conosciute, malgrado alcuni siti giuridici ne parlino costantemente e in profondità”.
Anche se di Copyzero si parla poco, sono già tanti quelli che se ne servono per tutelarsi: saggisti, narratori, fotografi, grafici, programmatori e soprattutto musicisti. Sono così numerose le richieste giornaliere per Copyzero Online che si è dovuto stabilire una regola: “tra una richiesta e l'altra devono intercorrere almeno 15 giorni”. Molti abbinano Copyzero alle licenze Creative Commons (vedi qui), altri alle Copyzero X, le prime e uniche licenze made in Italy. Se con Copyzero tuteli l'opera con le licenze Copyzero X la liberi. Ma questo è un altro discorso e l'affronteremo nel prossimo numero.
* Le firma digitale è stata equiparata a quella tradizionale con il DPR 10 novembre 1997, n. 513. La principale legge che la disciplina è il decreto legislativo 5 marzo 2005, n. 82, che però entrerà in vigore il 1° gennaio 2006.


http://www.costozero.org/
http://www.card.infocamere.it/
http://www.siae.it/

WILLY PETE SU FALLUJA

La strage nascosta di Sigfrido Ranucci

"Ho sentito io l'ordine di fare attenzione perché veniva usato il fosforo bianco su Fallujah . Nel gergo militare viene chiamato Willy Pete. Il fosforo brucia i corpi, addirittura li scioglie". È questa la tremenda testimonianza di Jeff Englehart, veterano della guerra in Iraq. "Ho visto i corpi bruciati di donne e bambini- ha aggiunto l'ex militare statunitense-il fosforo esplode e forma una nuvola, chi si trova nel raggio di 150 metri è spacciato". Testimoni hanno visto "una pioggia di sostanze incendiarie di vario colore che, quando colpivano, bruciavano le persone e anche quelli che non erano colpiti avevano difficoltà a respirare", racconta Mohamad Tareq al-Deraji, direttore del centro studi per i diritti umani di Fallujah.

Il video è disponibile qui:
http://www.rainews24.rai.it/ran24/inchiesta/video.asp

Vogliamo l'inchiesta su Fallujah di Rainews24 in prima serata sulla Rai

La bugia mediatica della guerra in Iraq non può più essere nascosta. Per questa ragione chiediamo che la Rai trasmetta in prima serata l'inchiesta esclusiva realizzata da Rainews24 dal titolo "Falluja. La strage nascosta". Tv italiane ed estere stanno richiedendo l'inchiesta per trasmetterla. Vorremmo che la tv pubblica permettesse ai cittadini italiani di venire a conoscenza dei documenti e filmati esclusivi dell'inchiesta.La bugia mediatica della guerra in Iraq non può più essere nascosta. Per questa ragione chiediamo che la Rai trasmetta in prima serata l'inchiesta esclusiva realizzata da Rainews24 dal titolo "Falluja. La strage nascosta". Tv italiane ed estere stanno richiedendo l'inchiesta per trasmetterla. Vorremmo che la tv pubblica permettesse ai cittadini italiani di venire a conoscenza dei documenti e filmati esclusivi dell'inchiesta.

Sottoscrivi l'appello qui:
http://www.articolo21.info/appelli_form.php?id=54

CITAZIONE E PLAGIO

FINO A CHE PUNTO LA CITAZIONE E' LECITA?
Il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003, emanato in attuazione della direttiva 2001/29/CE "sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione", ha introdotto importanti novità nel corpo della legge n. 633/1941 sul dirittod 'autore: due riguardano il diritto di cronaca e di critica costituzionalmente garantito.
La nuova normativa tutela ampiamente il diritto di cronaca, modificando e integrando l'articolo 65 della legge n. 633/1941 sul diritto d'autore con un comma (il secondo, aggiunto di sana pianta) molto chiaro: "La riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità è consentita ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca e nei limiti dello scopo informativo, sempre che si indichi, salvo caso di impossibilità, la fonte, incluso il nome dell'autore, se riportato". Questo comma affianca il primo, che finoal 28 aprile costituiva l'intero articolo 65: "Gli articoli di attualità, di carattere economico, politico, religioso, pubblicati nelle riviste o giornali, possono essere liberamente riprodotti in altre riviste ogiornali, anche radiofonici, se la riproduzione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la rivista o il giornale da cui sono tratti, la data e il numero di detta rivista o giornale e il nome dell'autore, se l'articoloè firmato". In pratica il nuovo articolo 65 giustifica la riproduzione o la comunicazione al pubblico di opere dell'ingegno (e l'espressione "comunicazione al pubblico" abbraccia anche i media dell'ultima e penultima generazione, quali il web e la tv) con l'esercizio del diritto di cronaca sia pure contenuto nei limiti "dello scopo informativo".
Il legislatore sostanzialmente ha recepito, con 31 anni di ritardo, una massima giurisprudenziale ricavata dalla sentenza 15 giugno 1972 n. 105 della Corte costituzionale: "Esiste un interesse generale alla informazione - indirettamente protetto dall'articolo 21 dellaCostituzione - e questo interesse implica, in un regime di libera democrazia, pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei, alla circolazione delle notizie e delle idee". Anche l'articolo 70 della legge n. 633/1941 ha subito un significativo ritocco che allarga la libertà di critica e di discussione collegata all' impiego di parti o brani di parti di opere dell'ingegno: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché noncostituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali".
La novità rispetto alla vecchia normativa è costituita dall'espressione "comunicazione al pubblico", che abbraccia, come riferito, l'utilizzazione di tutti i mass media, vecchi (giornali e radio) e nuovi (tv e web). Ne consegue che "il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi seeffettuati per uso di critica o di discussione". Insomma, di fondo, è consentita l'utilizzazione a scopo di critica, discussione o insegnamento, purché si citi la fonte e si usi il virgolettato, per pezzi più lunghi o di particolare valore stilistico-espressivo. Anche a livello di danno, non sembra che l'autore possa riceverne quandoun altro autore lo citi più o meno estesamente, così contribuendo alla diffusione delle sue informazioni facendo nel contempo pubblicità"gratuita" alla sua opera.
Ma vediamo alcune regole pratiche alla luce del mutato spirito alimentato dalle nuove tecnologie informatiche di scrittura e di diffusione delle opere.
1) Nella qualità: quanto più si discute o si critichi un assunto tanto più si può citare.
2) Nella quantità: quanto più è vasto il "tuo" scritto rispetto a quello citato, tanto più sei in regola.
3) Nella tecnologia imperante della superinformazione resa facile dai sistemi riproduttivi, la valutazione della citazione proibita si restringe, proprio per la facilità di trasferimento dei dati da altra fonte, dove quello che conta è il trasferimento veloce delle informazioni, a poco contando le modalità espressive di un concetto. Nell'assemblaggio e rielaborazione di masse di dati per lo strumento usato è più facile che pezzi rimangono intonsi contando, comunque, l'animus di riformulazione di idee, situazioni, immagini per trasmettere informazioni e non certo per rubarle ad altri, spacciandole come proprie.
4) La divulgazione storica si basa su una catena di informazioni trasferite da uno studioso all'altro a partire dall'originario ricercatore, il quale ovviamente ha funzione diversa da chi divulghi, sintetizzi, commenti risultati di originarie ricerche. Ogni autore storico copia-cita qualcun altro e la cultura si fonda paradossalmente proprio sulla trasmissione dei concetti tratti da altra opera.
5) Ne deriva come corollario che un autore, purché virgoletti e citi la fonte, può riportare integralmente catalogazioni fatte da altro autorein campo storico, scientifico etc. proprio per divulgare i risultati analitici di quella ricerca essendo questo nello spirito dell'originariocatalogatore.
6) Un'unica eccezione a quest'amplissima possibilità di riprodurre è ilcaso di opera letteraria o di "saggistica estetica", scritta cioè con uno stile personale tale da rasentare il letterario. Qui, invece, s'impone il rigore, con l'uso limitato della citazione, riportando accuratamente la fonte e usando il virgolettato, in quanto l'autore susseguente non può assumere come sue forme stilistiche che sono proprie di chi l'ha preceduto.
Per concludere, considerando l'idea di plagio un mito inesistente, riteniamo che il campo di predicabilità dell'uso illecito di opera altrui è notevolmente ristretto, anche alla luce dell'art. 21 della Costituzione e della massima citata della Corte Costituzionale. Ciò in linea con la visione anticopyright del giudice Francione, il quale ritiene che il profitto primario di un autore è uno solo: vedere diffusa la sua opera in qualunque forma o con qualunque mezzo . E' questo l'interesse anche del vero proprietario di qualunque diritto d'autore, l'Uomo in Grande, il quale da sempre non fa che diffondere le sue informazioni nella massa interrelazionale, in ciò "riproducendo" l'agire dell'Universo che, senza scambio e copia d'informazioni per prove eriprove, neppure sarebbe com'è adesso. Forse non sarebbe proprio.

Gigi Trilemmadel Comitato per la salvaguardia della Cultura Europea
http://italy.indymedia.org/news/2005/11/921165.php

UNIONE EUROPEA GIUDICI SCRITTORI (EUGIUS)
LA NUOVA UNIONE DEI GIUDICI UMANISTI D'EUROPA http://www.antiarte.it/eugius

VI RICORDIAMO 2° CONVEGNO GIUDICI SCRITTORI A ROMA IL 27 NOVEMBRE AL SUBURBIA - INFERNETTOROMA Per il programma completo e aggiornato cliccare su: http://www.antiarte.it/eugius/2°_convegno_eugius.htm

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